Dal Giornale del Popolo del 23 dicembre Che sia per confermarla o per smentirla siamo sempre lì, a parlare di questa cavolo di crisi, come un ex fidanzato ingombrante che non s'è ancora rimosso. Dunque se al brindisi di auguri in ufficio c'erano solo due panettoni invece dei soliti cinque ricoperti di glassa, è perché (sguardo contrito) «è stato un anno difficile e il prossimo lo sarà ancora di più». Viceversa se fuori da Tiffany (Milano, via della Spiga) ci sono dei poveracci in coda per comprare ammenicoli d'argento noi sculettiamo lontano prima di sbuffare un «poi dicono che c'è la crisi!». Manco ci si potesse augurare di trovare la gente rantolante e morente per strada per certificare l'esistenza di questa immonda situazione economica. Il panettone non ha i canditi? «Ringraziamo che sia lievitato, che è già tanto». Il panettone ha i canditi? «Ma come si fa a mettere i canditi nel panettone in un momento come questo?». L'altro giorno un lettore di Repubblica scriveva indignato per osservare che c'è la crisi e pure il riscaldamento globale, ciononostante nelle trasmissioni tv si vedono donne vestite come fosse agosto, dal che si deduce che ci sono temperature tropicali negli studi televisivi e santo Iddio meglio augurarsi uno stile sovietico con ballerine in calzamaglia grigia e guanti che sgambettano per scacciare il freddo. Ancora. Compri solo libri a Natale? «Si vede che c'è la crisi». Ma il colpo di coda più subdolo potrebbe arrivare domenica sera. Quando sarete tutti intorno a un tavolo e metà del parentado sarà già mezzo ubriaco. Vi chiederanno di rispolverare l'ambo, che alla tradizionale Tombola natalizia non si premiava da quando non ci sono più bambini da far vincere e quindi tacere. Ma è lì, quando invocheranno il prezzo calmierato per le cartelle e la possibilità di fare il terno nella stessa riga ove s'è fatto l'ambo che dovete alzarvi e andarvene. E lasciarli nella loro cavolo di crisi.
venerdì 23 dicembre 2011
venerdì 16 dicembre 2011
I duri di un tempo
I mesi che gli hai dedicato non si contano. Le ore a decifrare i silenzi infiniti, fingendo che non facessero male neanche un po', ma che fossero un passaggio fisiologico e obbligato. I messaggi mandati a vuoto. Le compilation sprecate associando a quegli occhi di ghiaccio ogni canzone, dando nomi in codice ad ogni playlist. Le serate sorseggiando birre che ogni volta promettevano di essere quelle definitive, quelle dell'epifania in cui il maschio dal cuore duro come la sua pellaccia finalmente si rivela e scorrono i titoli di coda sul bacio più tenero della storia. E invece quelle birre sono finite tutte senza titoli di coda né sigla da canticchiare sotto la doccia. Il lutto domina fino al giorno in cui ti guardi allo specchio e pensi alla parte più costruttiva di quella mitologica canzone di Lucio Dalla, la estrapoli dal contesto dei lamenti che spaccano il cuore e la usi per affermare che in fondo è vero: “d'amore non si muore”. E infatti eccoti qui, viva, vegeta e interessata ad altro. Passan dei mesi, forse degli anni e tu stai già meditando di incartare regali per un tizio per bene. E lui ritorna. Come se certe birre si potessero bere di nuovo, certe playlist ricostruire, certi nastri riavvolgere. Dice che lui ha capito, che lui ha scoperto i suoi sentimenti. Peggio: lui ha scoperto di avere un cuore e ha persino deciso di usarlo. E magari tutto questo bastasse a riflettere sul tempismo crudele e sempre sfasato dell'amore. Magari. Invece torna, riappare, telefona. Insomma scoppia di quell'amore che tu una vita fa elemosinavi. E d'improvviso, non solo non fa nessun effetto ma è enormemente imbarazzante. È un imbarazzo che prima ancora è uno smarrimento culturale: cosa resterà di un tempo in cui i duri diventano dei teneroni e i titolo di Stato diventano degli investimenti ad alto rischio?
Son tutti regali vostri
venerdì 9 dicembre 2011
Prima, la sobrietà
Dal Giornale del Popolo del 9 dicembre
Peggio dei compleanni ci sono solo gli anniversari. Peggio di entrambi ci sono le ricorrenze in clima di austerity. Solerti organi di stampa ci informavano che l'altra sera, alla prima della Scala per cui noi venderemmo madri, mariti e fidanzati, le signore della borghesia bene indossavano abiti eleganti ma sobri. Le calzature delle signore Napolitano e Monti sono state lodate a più riprese, i visoni delle più audaci sono stati prontamente attribuiti a lasciti ereditari. Alle croniste che popolavano il foyer, le sciure hanno fatto sapere che non hanno certo comprato gioielli o abiti per la serata, ma solo tirato fuori dall'armadio vecchi capi. E mai avremmo pensato di trovarci un giorno a ringraziare il cielo per l'esistenza di Valeria Marini, fieramente anticongiunturale con quel suo vestito sgargiante, prezioso e generoso nel mostrare la natica abbondante in mezzo a quella palude di signore timorose di mostrarsi troppo ricche o troppo curate. Abbiamo avuto un sussulto di indignazione che avremmo potuto portare in piazza con cartelli impopolari: “Ridateci i ricchi di una volta”. Perché i ricchi sono ricchi per un motivo, che è quello di mostrarsi splendenti a noialtri e prestarsi alle nostre critiche. Quei loro vestiti agli eventi mondani sono fatti perché a casa qualcuno come noi, accomodato sul divano, possa osservare che «non serve a nulla avere tanti soldi se poi ti vesti così male». Questo è essenziale a convincerci che noi saremmo comunque meglio vestite perché dotate di un gusto ineguagliabile che quelle là non possono comprare. I ricchi sono ricchi perché noi possiamo invidiarli, criticarli e ritenerci migliori di loro. Sono ricchi perché noi possiamo occuparci di loro invece che dare retta a quel tizio che dice che quella macchina è adatta al caso nostro. Spaziosa, confortevole. Tra un attimo dirà che è una familiare e allora non ci resterà che prenotare la pensione Anna a Rivabella di Rimini per la prossima estate.